Rebecca - Racconto n.5

“Sì, è tutto confermato.
No, non credo che l’interrail in Europa sia quello che mi serve in questo momento.
WiFi e sale relax. non mi serve nientaltro.”
La’ me scusi, è lei la Signorina Vitta?”
“Mamma, ecco, ti devo lasciare. Ci sentiamo presto. Quando tu e papà tornerete dalla Cambogia io sarò nuovamente in forma. Ciao.”
“Signorina Vitta?
“Sì, sono io, buongiorno”
“Benvenuta, signorina Vitta, me presento. Sono l’infermiera Rinaldi, ma se la presferisce la ma può ciamar soltanto Carla”.

Ottantacinque chili concentrati in un metro e sessanta di padovanità pura. Il grembiule verde voluto dalle circostanze si chiude a malapena, cingendo a fatica due fianchi rotondi e materni, dove ogni figliola vorrebbe cullarsi per scordare i cattivi pensieri. I capelli sono cinti in un raccolto confuso, con fili grigi che tentano disperatamente la fuga da un elastico ocra e da un groviglio di forcine arrugginite. I grandi occhi castani raccontano un’innocenza d’altri tempi e tolgono luce a due labbra sottili, rigorosamente prive di qualsiasi tipo di unguento colorato. Le lentiggini affiancano un naso rotondo, in perfetto equilibrio con il volto, pieno e finito.

Chissà quante figliole avrà consolato la signora Carla, in realtà ancora fieramente signorina, solo perché durante i suoi 58 anni compiuti il 12 marzo non ha ancora trovato l’uomo giusto, quello fatto apposta per lei, quello che risponda alla definizione di creatura maschile capace di trovarla attraente al punto da volerla al proprio fianco. Sicuramente non sono fuggite ai suoi abbracci consolatori le 5 nipoti, ormai tutte ultraventenni, figlie di due sorelle e un fratello più piccolo di lei e le figlie delle amiche, tante, che nel corso degli ani hanno avuto la fortuna di averla accanto.
“Rebecca Vitta, piacere. Scusi, ma nella fretta ho scordato i biglietti da visita. Nella mia cartella troverà però tutti i miei riferimenti”
Una stretta di mano secca e decisa, lunghi cappelli castano chiaro perfettamente curati e occhi verde ghiaccio: questi soli elementi basterebbero a straniare Carla di fronte a quella figura alta e longilinea, ma il tacco 12, la Louis Vitton a bauletto e i grossi Gucci neri che le coprono gli occhi le procurano quasi una sensazione di fastidio.

Mentre Carla pensa al reale significato dell’espressione “biglietto da visita”, un contenitore in pelle della Montblanc le viene gentilmente offerto tra le mani.
“Eccole Carla, queste sono le mie cartelle cliniche dal 1991 a oggi. In ordine alfabetico ho invece raccolto la documentazione che il Dottor Pozzi mi chiesto di compilare per il mio ingresso qui. Se le può servire  ho anche la versione digitale”
La accompagno nella sua stanza? Non se è portata valigia?
“No, i miei bagagli verranno consegnati in giornata dalla mia assistente. Sa, con un lavoro e un matrimonio tra due mesi è impossibile far tutto da sé”.
Inutile precisare che Carla non possa saperlo, ma Rebecca non potrebbe immaginare nulla di diverso da un ricevimento con almeno 500 invitati, due wedding planner, 3 location diverse, una per la cerimonia civile, una per quella religiosa e una per il ricevimento, un abito di alta moda disegnato per l’occasione e il direttore creativo di Worldwide Creativity Agency a supervisionare il piano digitale dell’intero evento, con tanto di sito internet, app e investimento media per le pubbliche relazioni d’obbligo.

Mentre Carla guida Rebecca lungo i corridoi della clinica Alberto Frassini, inizia a fantasticare sul motivo per cui una donna così ricca sia finita lì. Di solito le maniache compulsive, ossessionate da ordine e perfezione  e con pseudo problemi alimentari richiesti dall’etichetta capaci di conti correnti a 10 cifre preferiscono le cliniche Svizzere.
Lì si narra ci siano addirittura sauna e stagione sciistica incluse nel prezzo. Maria, una vecchia collega di Carla ormai in pensione, le raccontò addirittura di vasche di acqua calda all’aperto, circondate da neve fresca,  dove fare terapia di gruppo sotto il cielo stellato. Il tutto condito ovviamente da pazienti e mariti delle pazienti con doppi cognomi e triple case di proprietà.
Maria lo sapeva perché la cugina di suo cognato ci aveva lavorato come cuoca per un’intera stagione estiva.
L’Alberto Frassini invece non era nulla di tutto ciò.
I residui bellici della legge Basaglia sancirono la definitiva chiusura del manicomio nel 1999 e dai suoi cimeli ne era nata una struttura fresca e vivace, con poche stanze per le cure riabilitative più gravi, aree di accoglienza e terapia di gruppo per disturbi alimentari, schizofrenia e disturbo bipolare lievi e attività rieducative per disturbi psichici generici.

Il punto di forza dell’Alberto Frassina 2.0 è però l’area aperta al pubblico, fortemente voluta dal Dottor Guido Pozzi: un bistrot, una sala conferenze per seminari educazionali e un teatro dove pazienti e attori reali possono mostrare i frutti di un anno di terapia catartica.
Il Dottor Pozzi ha sempre creduto che salvare la struttura da reportage fotografici o set televisivi di serie di secondo ordine, come accaduto ad alcuni manicomi vicini, sarebbe stato più produttivo.
“Evito come la peste ogni tipo di rappresentazione del dolore fine a se stessa”
Ecco come rispondeva agli inviti a mostre o documentari sulla storia degli ex manicomi e, nonostante una buona dose di snobismo intellettuale che ostentava nei testi di Bahuman in bella mostra sul retro della sua scrivania, era fermamente convinto che la a storia clinica dei pazienti vada lasciata alla loro sola memoria personale, o tuttalpiù, a quella silenziosa di parenti e amici più intimi.
E così all’Alberto Frassina le storie personali hanno presto lasciato il posto alle storie sociali, fatte di intrecci tra malati e persone apparentemente sane, senza distinzione tra i due universi.

Del resto la figura di Carla ben rappresenta il labile confine tra follia e normalità e la scelta di averla come infermiera receptionist dell’Alberto Frassini è attestazione esplicita del posizionamento voluto dal Dottor Pozzi.
“Vede alla nostra destra c’è il parco. Qui potete averne accesso sempre, anche se de noce a me fa un poco de pura.
Alla nostra sinistra invece c’è la mensa. Una volta era usata solo da dottori, infermiere e persone di servizio, ma oggi qui ghe entremo tutti quanti.

Vede quella porta là in fondo? Ecco, da lì partono i padiglioni con le stanze”
La porta è quella di ogni ospedale italiano che visse il proprio apice tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Gli infissi in legno color crema dalle forme arzigogolate disegnano ancora profili di case di nonne, mentre i vetri opachi e dai mosaici trasparenti trasudano una luce ovattata e artificiale, come le vite vissute tra quelle mura. La maniglia barocca apre la strada a pareti ancora più alte, chiuse in archi severi e angusti: il tacco di Rebecca rimbomba e l’eco dei suoi passi balza da una parete all’altra.

Lei però sembra non curarsene. Guarda tutto con estrema indifferenza, pensando che fra un mese tutto sarà finito. Fra un mese potrà dirsi guarita, la crisi sarà finita. Il matrimonio del secolo verrà portato a termine e i cattivi pensieri verranno estirpati per sempre.


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