Ultima lettera di un uomo mai divenuto adulto

22 giugno 1998

A Sergio

Immagino questo giorno da quando lessi per la prima volta con te la Critica della ragion pratica.

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. 

Penserete che quel che vado a fare nasca dall'inettitudine del mio animo, dal quel cinismo che siete soliti attribuire alle persone che come me trascendono il mondo, fingendo di viverlo nella sua totalità.
Ripercorrerete i miei gesti, rivedrete gli ultimi fotogrammi di questi giorni, cercherete tra gli archivi della vostra memoria uno spiraglio di razionalità che metta pace alle vostre coscienze di uomini piccoli. Magari ricorrerete anche ad altri mezzi che io mai conoscerò in questi ultimi anni di fine millennio.

Uomini. Voi ancora non vi potete dire uomini. Siete maturi, sì, siete maestri nelle vostre arti di irretire i pensieri e le menti di chi ancora non è adulto, convincendolo che rimanendo avrà accesso alla gloria.

Quel che ancora non capisci, Sergio, uomo piccolo, è che la tua grandezza intellettuale non riuscirà a spiegare il mio gesto. Dirai a chi vuole farsi plasmare dalle tue parole che l'uomo è a ogni età maturo per comprendere il libero arbitrio altrui, ma mentirai a loro e a te stesso.
Non esiste uomo in grado di capire il mio gesto, a nessuna età. A nulla servirà citare Socrate, a nulla chiedersi chi andrà a star meglio, se colui che va a morire o chi decide di rimanere.

Dovrai essere tu a pronunciare queste parole nel giorno in cui tutti mi piangerete.

La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. 
La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria.

Eccolo il mio io indivisibile, quello che nessuno di voi è riuscito a comprendere. I vostri giudizi, i paradeigmata a cui siete soliti ricondurre ogni cosa crolleranno come castelli di carta travolti dalla marea.
Sono troppo per le vostre piccole menti mediocri. Il fallimento non mi appartiene, sono stanco di portarlo con me. Il fallimento deve lasciare spazio all'unico trionfo possibile.
Muore giovane chi è caro agli dei, così mi avete detto.
Nel giorno in cui chi mi ama pensa a me come a un vincitore, organizzando per me un'estate serena e leggera, porterò a compimento il mio dramma. Come un bravo istrione, vi porterò a chiedervi per sempre quanto reale e quanto finzione sia il mio ultimo gesto. Ma non esiste risposta.
Il mio io indivisibile si unirà per sempre al cielo stellato sopra di me e allora tutto avrà inizio di nuovo. La mia grandezza sovrasterà le vostre piccole menti e per voi la vita non sarà più la stessa.

Sarete pervasi dal senso di colpa e dalla consapevolezza che chi ci sta di fronte non è mai chi ci racconta di essere, fino a quando non decide di dirlo. Ma spesso i modi e i gesti che sceglie sono bruschi e definitivi.

Allora sarà troppo tardi. Ora è troppo tardi.

Così, Sergio, me ne vado a morire. Solo gli dei e dopo oggi io sapremo chi di noi è andato a stare meglio.

Saverio 



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